Sacrario Partigiani dei Caffi, 3 Luglio 2022 Orazione di Michele Rossi

Mi rivolgo a te, caro partigiano, da un tempo incerto e confuso, ferito da un’emergenza pandemica, minacciato da un conflitto mondiale e avvolto da un grande smarrimento esistenziale. Tu, che hai vissuto una stagione dura e dolorosa, comprenderai sicuramente il mio sconcerto.

Sono passati quasi ottant’anni da quando, mosso da un’ansia di libertà, scegliesti di lottare contro i nazifascisti. Ti facesti carico personalmente della paura della morte per porre fine all’arbitrio, al terrore e alla precarietà nella vita degli italiani, e cercare di restituire ordine e prevedibilità alle relazioni sociali. Credesti in un futuro diverso e lo rendesti possibile.

Io, che nel futuro da te immaginato ci sto vivendo, vedo attorno a me italiani smarriti in uno scempio nichilista e afflitti, come non mai, da una dissoluzione dei rapporti interpersonali. Da liberi cittadini e felici consumatori ci siamo trasformati in sudditi del regno dello schermo e in tristi solitudini in video che si illudono di saper tutto e di dominare il mondo intero. Aggrappata a una sorta di eterno presente, la società della Rete e delle connessioni mira a confonderci, rendendo uguali le voci difformi e neutralizzando in un rumore di sottofondo ogni forma di dissenso. Un timore sottile ci pervade nella quotidianità, e si ha sempre più paura di dire, e perfino di pensare, che non tutto è uguale a tutto.

Negli ultimi anni, caro partigiano, il nostro Paese si è fatto rancoroso e ho la sensazione che la democrazia abbia perso fiducia in sé stessa. È ritornata sullabocca di tutti una parola che fino a pochi decenni fa era stata associata ai morti e alla nostra storia del secolo scorso, una realtà creduta scomparsa: FASCISMO. suo racconto pubblico non ha mai goduto di una salute migliore… I tempi sono ormai maturi – si dice in giro – per riconoscere il valore del pensiero e dell’azione fascista nella vita civile italiana, dedicando strade e monumenti a gerarchi nobili di spirito.

Sto poi toccando con mano un fenomeno nuovo e assai pericoloso: un processo di banalizzazione che ha letteralmente annichilito la memoria del recente passato nazionale e l’importanza dell’antifascismo, alla cui causa, indomito resistente, hai dato tutto te stesso: i tuoi ideali, il tuo coraggio, l’accettazione del rischio di essere ucciso e di trovarti nella condizione di uccidere. Non so come dirtelo, ma ho come l’impressione che l’onda lunga della Resistenza si sia infranta e che nella sua risacca stiano riemergendo comportamenti e azioni che credevamo sconfitti. Sembra come scomparso ogni interesse a ricordare l’esperienza resistenziale fatta di sofferenze e accettazione di infiniti disagi, di paura e temerarietà, del dare e subire la morte come normalità quotidiana. Pochi ricordano la vostra preziosa e indelebile comunanza che si trasformò in amicizia, ovvero in «legame di solidarietà, fondato non sulla comunanza di sangue, né di patria, né di tradizione intellettuale, ma sul semplice rapporto umano del sentirsi uno con uno tra molti», che è stato il significato intimo, il segno della vostra battaglia, come rilevava Ada Gobetti nel suo Diario partigiano.

Ribelle combattente, ma lo sanno le nuove generazioni cosa è stato realmente il fascismo? Sui banchi di scuola studiano che è stata la prima dittatura di destra ad aver dominato un Paese europeo. Ma sono a conoscenza del fatto che è stato un regime criminale e assassino che nacque con la violenza, per la violenza e adulando la violenza? Sanno che il fascismo mirava a distruggere la civiltà democratica e liberale, che proclamava un’opposizione totale alla sovranità popolare e ai principi di libertà e uguaglianza? Mi spiace dirtelo, ma di questo fenomeno politico che ha impresso il suo marchioalla storia del Novecento, imponendosi in Italia negli anni tra le due guerremondiali come partito milizia, regime totalitario che irreggimentò tutti gli italiani portando a un militarismo integrale, diventando un modello per altri partiti e regimi sorti in quel periodo in Europa, di tutto questo le nuove generazioni conoscono poco o nulla. Molti, troppi, hanno nei confronti del Ventennio un giudizio blando o di indifferenza, perché è stato fatto credere loro che non è mai esistita una dottrina fascista, ma ci sia stata solo una colossale parata carnevalesca di formalità, riti e culture differenti, di cui Mussolini fece un fascio. La fascina si conservò per vent’anni perché il Duce, per stringere assieme tutti gli altri rami, scelse un legno forte e inflessibile. E fu abile nello scegliere il legno giusto per cingere la fascina! Il suo era ben stretto, disciplinato e indirizzato verso una sola meta: la grandezza dell’Italia. È questo il racconto autoassolutorio e relativizzante che circola in giro nei confronti del fascismo.

Caro partigiano, mi è capitato di leggere in alcuni libri di storia che in realtà non c’è mai stato un regime fascista, perché fascista lo era solo nella facciata: non sono state fasciste le masse italiane; non è stata fascista la maggior parte degli squadristi che parteciparono alla nascita del movimento e alla sua gestione sotto il dominio di Mussolini; non è stata fascista neppure la folta schiera di intellettuali, filosofi, storici, giuristi, economisti, scienziati e artisti che si adoperarono per realizzare opere, istituti e leggi con la finalità di esaltare la dittatura e celebrare il Duce. Tutto inventato, tutte fandonie: fu solo una grottesca farsa di simulazione collettiva alla mercé di un capocomico gradasso, istrionico e spaccone, capace con le sue secche allocuzioni di rendere partecipi gli italiani alla religione mistica della politica. Il maestro elementare, giornalista, figlio del fabbro di Dovia di Predappio, invasato dall’idea della romanità, si accomodò sullo scranno dove si erano seduti millenni prima di lui gli imperatori romani, autoproclamandosi DUX, il portatore del Verbo della nazione. E molti seguirono il grande Pifferaio. Con la sua mascella volitiva, le labbra sporgenti e le movenze a scatti, Benito, serrando le mascelle, aggrottando le sopracciglia e divaricando le narici, apparve agli italiani circonfuso da una luce semidivina. Venne battezzato l’«uomo della provvidenza» dall’arcivescovo di Praga venuto in visita a Roma e lo ribadì pure papa Pio XI davanti agli studenti e ai professori dell’università Cattolica di Milano. Ci sarebbe da ridere se non si fosse verificata una tragedia nazionale nel Paese dell’opera buffa…

Valente partigiano, non ci crederai, ma dal dopoguerra in poi – con forza crescente dagli anni Novanta – tentano di farci credere, contro le prove più evidenti e incontrovertibili, che la tua Resistenza è stata qualcosa di inutile, quando non dannosa. Una «grande bugia», per dirla con un fortunato titolo. La tua lotta viene dipinta come una sorta di calderone in cui si trovarono casualmente gomito a gomito scalzacani, scapestrati e scioperati velleitari che vissero sulle spalle della povera gente. Ti hanno addirittura descritto come carnefice sanguinario, perché ti saresti accanito vigliaccamente su vittime innocenti, un manipolo di disperati: i ragazzi di Salò; C’è chi afferma che tra te e un fascista dopo l’8 settembre ’43 non ci sarebbe alcuna differenza, che in fondo in fondo eravate uguali… stare di qua e di là poco cambiava, perché l’uso delle armi è sempre deplorevole, la violenza è sempre ingiusta. Non solo. Qualche accademico sostiene che se su un piano politico, che si fonda sempre sui risultati, è vero che ci fu chi combatté per la parte sbagliata e chi lo fece per la parte giusta, questo discorso non ha alcun senso sul piano morale, perché chi aderì alla Repubblica di Salò lo fece con sentimenti sinceri e purezza di cuore.

Si afferma che l’onestà riguardava le intenzioni e il modo dell’agire dei combattenti, e ci si può mantenere moralmente integri a prescindere dal valore della parte in cui si è militato. Sul piano politico ci sono stati vinti e vincitori, è vero, ma sul piano morale sono stati tutti vincitori. Et voilà, l’equiparazione è servita. Significa, quindi, che il valore di un’azione non si misura dalla qualità della causa alla quale si partecipa, ma dalla sincerità della fede che la anima? E gli ideali etici e politici, come la libertà, la democrazia e la giustizia sociale, non contano? Qualcosa non mi torna…

Ad ogni Festa della Liberazione, sulla carta stampata e nelle virulente polemiche che si accendono ai talk-show televisivi, si afferma che la Resistenza è stata deformata e mistificata, perché è stata messa sotto chiave dai comunisti. Ogni anno c’è chi, considerando la Resistenza solo un periodo di divisione, lancia un appello a una riconciliazione nazionale, dimenticando però la cosa più importante: che la vittoria dei partigiani ha significato un’Italia libera, la vittoria dei repubblichini avrebbe significato un’Italia schiava.

E così, «invece di ricordare gli errori e di accettare le responsabilità, ci si rifugia nel culto dei morti che sono tutti eguali sotto la terra nera», diceva Giorgio Bocca. C’è addirittura chi è fermamente convinto che non è vero che uno più uno faccia due, ma la sommatoria faccia sempre uno. Il conto decisamente non torna…

Io ho sempre pensato che c’è stato un periodo storico del secolo scorso, che va grosso modo dall’ottobre del 1922 al luglio del 1943, nel quale in Italia unico è stato il pensiero, una è stata la dittatura, uno solo il partito ammesso, unico il capo, unica l’ideologia sacralizzata come religione laica, la quale, proclamando il primato assoluto della nazione, intendeva trasformare quest’ultima in una comunità etnicamente omogenea e gerarchicamente organizzata in uno stato totalitario.

Non una invece, ma tante e tutte nefaste e rovinose sono state le conseguenzeportate dal regime. In primis, l’aver provocato la più grande contrazione dei diritti civili degli italiani da quando esiste il concetto di diritto civile. Le manifestazioni della libera vita civile vennero circoscritte, controllate, sorvegliate, subirono tutte un arretramento: venne cancellato il diritto di voto e di libera aggregazione, posta la censura alle libere idee, soppressa la libera stampa, smantellati i sindacati, confinati i dissidenti in località remote. Alla repressione del dissenso Mussolini combinò poi la costruzione del consenso. «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»: ecco la formula solenne con cui venne sintetizzata l’era fascista.

Sei stato tu, caro partigiano, ad avermi insegnato che bisogna essere reattivi quando la storia ci regala un’occasione. Fu dopo il 1940 che l’Italia, atterrita dalle bombe, gravata dalle privazioni provocate dalla guerra, devastata dai lutti, terrorizzata dalle angherie subite dei nazifascisti e esasperata dalle menzogne del regime, si svegliò. Apparentemente fu una scelta tra due parti: seguire le sorti del Re, accettando gli anglo-americani, oppure mantenersi fedeli all’alleanza con la Germania. In realtà scegliere da che parte stare fu molto più complicato.

La maggior parte della generazione della Resistenza era arrivata all’appuntamento con la storia impreparata sul piano politico. Stavano alle loro spalle venti anni di diseducazione politica. Il regime aveva cercato di fare dei connazionali una comunità di gregari fedeli alle armi. Come aveva evidenziato nel 1924 Piero Gobetti, descrivendo il cedimento dell’Italia alla prepotenza fascista, negli italiani si formò «una vera e propria voluttà al servire». I giovani erano cresciuti nel brodo di questa cultura fascista, però lo scoppio del conflitto mondiale li pose di fronte all’urgenza di scegliere.

La Resistenza visse, insomma, di questa impreparazione, ma anche di spontaneità e della volontà di essere uomini. C’è che lo capì subito, chi un po’ più dopo, ma la scelta fu comunque sempre fatta in solitudine.

«Noi antifascisti attivi eravamo incredibilmente pochi e ci sentivamo soli. Ricordo quel tempo come solitudine». Con queste parole Vittorio Foa rievocava la dura prigionia patita dal 1935 al 1943.

Anche la tua, caro partigiano, fu una scelta difficile, compiuta tra lusinghe fasciste e paura della disobbedienza. Perché di questo si trattò: di un gesto di disobbedienza. Fu una scelta di rottura, di libertà, che prevedeva – è bene ricordarlo, non bisogna vergognarsi a dirlo – l’uso delle armi. «Sparare vuol dire credere in qualcosa di giusto o di sbagliato», ci ha lasciato scritto Nuto Revelli ne La guerra dei poveri. Ribellarsi alla dittatura significava essere dei fuorilegge. Ciononostante, chi scelse di stare dalla parte dei ribelli lo fece per istinto, esasperazione o tante altre ragioni.

Caro partigiano non cercare di giustificarti: so bene che non fosti tu a creare la violenza, ma che l’accettasti come mezzo già esistente, che fu la condizione in cui ti trovasti a vivere. La violenza tu non la esibivi come i repubblichini, la tua sceltadi uccidere veniva dopo, era conseguenza della tua scelta fondamentale di contrapporti alla violenza nazifascista. La tua era «dura vendetta» contro il «fascista vile traditor», era un’ira «senza ferocia», come scrive Beppe Fenoglio riferendosi a un compagno di lotta di Johnny, sparatore onesto ma non per questo risparmiato dalla crudeltà fascista.

Caro Partigiano, non sarebbe il caso di scrivere in tutti i testi scolastici che la Resistenza è stato un movimento di popolo? No, no nel senso che tutti gli italiani presero parte alla Resistenza: le bande concentrarono un numero di persone che oggi non riempirebbe nemmeno tre stadi di calcio. Ma nel senso che chi ha fatto la Resistenza rappresentava tutti gli strati sociali del popolo italiano. Vi presero parte spontaneamente, senza imposizione dall’alto, senza coscrizione obbligatoria, uomini di tutti i ceti popolari, quelle classi sociali che erano sempre state estranee alla vita politica.

Come dici partigiano? Che il vero nemico che combattevate non era il fascista, ma il passato, il regime durato vent’anni, con i suoi linguaggi, i suoi riti, le sue adunate, le sue colpe? Certo, fu per molti di voi un modo per guardarsi allo specchio e un’occasione per riflettere, ripensare a tutto quanto. Iniziaste a combattere per riscattare non solo il popolo italiano, ma l’onta del fascismo da voi stessi. Fu, insomma, un processo di rigenerazione delle coscienze, e per i resistenti, armati e non armati che fossero, l’ingresso all’età adulta. Chi visse, come te, quell’esperienza fino in fondo, divenne una persona diversa: acquisì consapevolezza di sé, di quello che non accettava più e del mondo in cui voleva vivere.

Caro partigiano, è giunto il momento di salutarti. Oggi non c’è il pericolo che ritorni il fascismo storico, e non saranno certo i vecchi fascisti eventualmente arifondarlo. Sta soffiando però un vento destroide che è la manifestazione di qualcosa di più profondo radicato nell’animo umano e nelle pulsioni sociali: è la tendenza imperante all’unanimismo, al pensiero unico omologante, l’intolleranza verso i “diversi”. Sento attorno a me un parlar vuoto e violento, vedo leader politici sovranisti che stanno accarezzano l’ignoranza e la banalità della gente, sapendo che la loro forza si basa sulla debolezza della massa.

Di contro alla cattiveria e al rancore diffusi, trasformati da alcuni nella leva cinica del riscatto sociale, ci resta però la testimonianza della guerra guerreggiata del 1943-45, la Resistenza italiana, questo prezioso e insostituibile periodo storico in cui gli italiani si sono dati un’altra possibilità. Tu, caro combattente, mi hai dimostrato che tutto è possibile, basta volerlo.

Oh partigiano non ti fermare, ripetimi ancora il tuo racconto. Come dicesti a quei giudici che ti condannarono a dieci mesi di carcere e al confino per aver realizzato con un motoscafo, assieme a Carlo Rosselli, Italo Oxilia e Sandro Pertini, l’espatrio di Filippo Turati in Francia? «Il regime ci può colpire, perseguitare, disperdere ma non potrà mai aver ragione della nostra opposizione, perché non si può estirpare un istinto morale». Oh comandante Maurizio, portami via…

Sacrario Partigiani dei Caffi, 3 luglio 2022

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Il mio testo, scritto per essere letto a voce alta, ha un debito di riconoscenza verso una infinità di opere letterarie, memorialistiche, storiografiche e saggistiche, e verso attente ricerche, analisi e riflessioni sul fascismo e sulla Resistenza pubblicati dagli stessi protagonisti di questa dolora pagina della nostra storia nazionale e da parte di studiosi, letterati, intellettuali e giornalisti del secondo Novecento e degli ultimi anni. Mi preme ricordare in modo particolare i seguenti titoli, da me citati indirettamente o in modo velato nell’orazione:

Alberto Cavaglion, La Resistenza spiegata a mia figlia (Feltrinelli, 2015)

Chiara Colombini, Anche i partigiani però… (Laterza, 2021)

Umberto Eco, Il fascismo eterno (La nave di Teseo, 2019)

Emilio Gentile, Chi è fascista (Laterza, 2019)

Carlo Greppi, L’antifascismo non serve più a niente, (Laterza, 2020)

Giampaolo Pansa, La grande bugia (Sperling & Kupfer, 2006)

Ferruccio Parri, Come farla finita con il fascismo (Laterza, 2019)

Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991)

Roberto Vivarelli, Fascismo e storia d’Italia (Il Mulino, 2008)